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Crepuscolo Mediterraneo – Personale di Fulvio Leoncini

Si inaugura venerdì 1 aprile alla galleria La Fonderia, la personale di Fulvio Leoncini con il recente ciclo di opere dal titolo Padiglione infinito.

L’artista presenta una selezione di opere incentrate  sul disagio dell’esistere, sull’uomo visto come “paziente” eterno. Una visione non solo invito ad una mostrapessimista, ma  animata dall’amore per la vita e, non ultimo, permeata di sensualità. Dolore e speranza. Opportunamente, Nicola Nuti, che ha curato la rassegna, ha sottotitolato Crepuscolo mediterraneo, servendosi delle parole del poeta Dino Campana.

Leoncini, nell’ arco della sua intensa attività, ha indagato sempre di più l’animo umano, e la figura, ciclo dopo ciclo, è diventata metafora poetica, opera “al nero” dove  il sogno è incubazione della metamorfosi interiore.

L’artista, nato a Empoli nel 1960, ha all’attivo numerose esposizioni in spazi pubblici e privati in Italia e all’estero (è del 2017 la collettiva a cui è stato invitato a partecipare a San José del Cabo, Patricia Mendoza Gallery, Baja California Sur).

La mostra è presentata da Nicola Nuti e resterà aperta fino al 23 aprile da martedì a sabato con orario 10 -13 e 15,30 – 19,30.

 

“Oggi più che mai abbiamo bisogno di certezze, illusioni, leggerezza. Vorremmo un’arte che ci strappasse il cuore pieno di paura e ce lo restituissecorpo femminile disteso ripulito e confortato. Ma l’arte non tranquillizza mai fino in fondo: dietro a ogni scorcio di serenità apparente, a una figura innocua, un palloncino o un semplice monocromo si annidano ansie inespresse, sguardi in bilico sul nulla. Con Fulvio Leoncini si va subito al sodo: via ogni

Quadro; dipinto; uomo e donna nudi; Fulvio Leoncini, tecnica mista su tavola;

compiacimento, via la narrazione, via ogni graziosità. E si resta a contemplare i resti di un mondo come fosse un corpo martoriato, ferito e ricucito che non sai se potrà mai farcela a risollevarsi.

Infatti ciò che l’uomo vive è davvero un “padiglione infinito”, un luogo dove follia è normalità e viceversa. Leoncini ha compreso bene quanto arte e pazzia siano speculari; lo sapeva bene il poeta Dino Campana, dalla cui opera ho ripreso il titolo di questa mostra. La poesia e l’arte rappresentavano per lui il sogno, un percorso che solleva l’uomo dalla banalità del quotidiano (i “triti fatti”), per indirizzarlo alle “vie del cielo”, distante dalle necessità.

Dunque non bisogna considerare l’opera di Leoncini come una sorta di soliloquio doloroso, ma come la costruzione di una cattedrale dove il male di vivere) è rappresentato ed esorcizzato. Le sue pagine dipinte, segnate, incise, non sono cahier de doléances: hanno solennità monumentale. Attraverso la sua personale “linea d’ombra” l’artista accende segnali di luce che diresti di vita o di speranza.

Nel lavoro di Leoncini ogni segno è necessario, mai esornativo, e il modo di procedere è controllato, misurato. Sebbene lo sconforto sia dietro l’angolo, la sua pagina dipinta è fatta per durare e lo dimostra la cura di stendere veli di cera trasparente come a proteggere l’immagine. Nelle tavole dipinte c’è una sacralità del dolore che magari ti spiazza, ti sconcerta e ti ricaccia fra le angosce che vorresti eludere, ma l’amore che vi scorre sotterraneo alla fine ti accoglie e comprendi di avere di fronte un talismano, un viatico per il tuo percorso esistenziale.

Tutto ciò è un’elargizione di poesia, in tempi in cui tutto si misura in gradi effimeri di superficialità.”

Nicola Nuti